Figlio mio [787]

Una riproduzione di ‘Madre e figlio’ di Pablo Picasso, 1921, olio su tela.

Revisione del 13 novembre 2020 – Attenzione: questo racconto è severamente proibito a chiunque si commuova facilmente.

Nota dell’autore: Questa storia commovente è diffusa a Venezia, anche se l’autore di queste righe l’ha sentita, sin dalla sua prima giovinezza, ogni volta in modo diverso, con personaggi diversi ed in situazioni diverse.

Il racconto è stato quindi delicatamente adattato ai sentimenti, ai costumi e alle abitudini del nostro tempo. In realtà, come tutte le storie che nascondono un vero e profondissimo amore, essa non ha tempo. Sembra che esista dal 1500 e, probabilmente, non morirà mai più.

Figlio mio

(racconto tradizionale veneziano, liberamente riveduto e corretto)

Una madre era rimasta vedova, giovanissima, di un capitano di vascello che lavorava per la Serenissima e morto, giovane pure lui, in una tempesta nella zona di Alessandria d’Egitto. Ella viveva col figlio che adorava, facendo per lui tutti i sacrifici che solo una madre sa fare. La Repubblica di Venezia aveva assegnato alla vedova una cifra mensile ma, questa cifra, in verità, era piuttosto modesta, anche per la morte in giovane età del capitano, che non aveva molti anni di servizio.

Non avevano quindi, madre e figlio, grandi cose: anzi, al di fuori di una abitazione decente vicino a Campo San Giovanni e Paolo, non avevano quasi nulla. In compenso, anche se non avevano, erano in buona salute e il figlio contraccambiava l’adorazione della madre, che dedicava al figlio tutto il suo tempo. Le lunghe sere d’inverno, in cui la madre era col figlio vicino al fuoco, terminarono quasi completamente quando il figlio, compiuti quattordici anni, cominciò a frequentare, di sera, le amicizie. E terminarono del tutto quando il figlio ne compì 16. IL ragazzo rientrava alla sera, certe volte, a tarda ora ed ogni giorno che passava egli era sempre più scontroso. S’ interessava sempre meno agli studi che aveva intrapreso all’Istituto Nautico, dove il proposito iniziale era quello di diventare capitano di vascello, come il padre. Ogni tanto la madre cercava di informarsi: “Figlio mio, cosa ti succede? ti vedo preoccupato… dimmi, figlio mio…”

Il ragazzo, ormai quasi diciottenne, non rispondeva e si chiudeva sempre di più.

Finché, una brutta sera, tornò a casa accompagnato dai gendarmi, tra i quali, c’era il comandante che era stato un compagno di scuola della madre. Disse il comandante: “Elisa (tale era il nome della madre), abbiamo scoperto tuo figlio che s’era introdotto in una gioielleria e lo abbiamo trovato con quanto aveva appena rubato. Siccome ti conosco sin dai tempi di scuola e stimavo enormemente il tuo povero marito e dato che il ragazzo non ha ancora diciotto anni, te lo riconsegno, in rispetto della tua persona e della memoria del tuo povero marito. Tu comprendi perfettamente, Elisa, che la prossima volta non potrebbe più andare così, anche perché nel frattempo avrebbe più di diciotto anni.”

La madre, mortificata, ringraziò il comandante della gendarmeria, suo vecchio compagno di scuola, il quale si accomiatò coi suoi gendarmi.

Rimasti soli, si guardarono per un poco: il figlio, furibondo, era seduto su di un sofà e la madre lo guardò e disse: “Figlio mio adorato, cosa ti succede? perché non mi parli? dimmi figlio mio…”

Improvvisamente, il figlio cominciò a parlare: tutti i suoi amici avevano tutto, si divertivano, potevano spendere, erano eleganti, avevano una barca, lui aveva trovato una ragazza che lo aveva lasciato per andare con un certo Piero, figlio di un avvocato, che pure possedeva una barca. Non ce la faceva più. Solo lui non aveva niente, non poteva realizzarsi. Disse alla madre che lui malediceva il giorno in cui era venuto al mondo, per fare una vita del genere. Che era colpa di lei se non aveva niente, che lui sarebbe tornato a rubare e che lei, la madre, non doveva permettersi di pensare di ostacolarlo.

Gridava sempre di più, urlava addirittura, aveva le bave alla bocca, sembrava impazzito e dalla concitazione, si alzò di scatto dal sofà, incespicò sul tappeto e batté la testa su di un tavolino vicino. 

La madre disse: “Figlio, figlio mio, ti sei fatto male? hai battuto la testa…”. Il figlio, furibondo, percosse la madre e, mentre la percuoteva, disse: devi finirla di dirmi figlio mio qua, figlio mio là! basta! sono un uomo!” 

La madre smarrita, disse: “Figlio mio, mi strappi il cuore…”

Il figlio assassino, furibondo, replicò: “Ti avevo detto di smetterla con questo figlio mio! non hai voluto ascoltarmi! adesso il cuore te lo strappo davvero!”

Detto, fatto: in preda alla più totale follia, preso un coltello in cucina, vibrò un colpo al petto della madre, aprì il costato e le strappò il cuore.

Improvvisamente, si rese conto… improvvisamente, si rese conto… improvvisamente, si rese conto… terrorizzato da ciò che aveva fatto, ancora col cuore della madre in mano, si precipitò giù per le scale, ma, nell’emozione, cadde violentemente giù per i gradini. Allora, si sentì una dolcissima voce femminile provenire dal cuore che l’assassino aveva ancora in mano: “Figlio mio adorato… sei caduto ancora… ti sei fatto male?”

Sconvolto, l’assassino si suicidò, gettandosi tra le onde di fronte al cimitero di San Michele.

Nelle notti fredde d’inverno, un fantasma, con un coltello in una mano e alcuni gioielli nell’altra, si aggira nel cimitero di San Michele e si sente che dice:

“Dov’è… dov’è il cuore… fa freddo… ho bisogno del suo calore! aiuto! madre mia, aiutami tu…”

Sembra, inoltre, che ripeta in continuazione queste parole, sino alle cinque del mattino, sino a quando cioè la campana del convento benedettino non chiami i frati alla prima Messa.

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