Chissà cosa vuol dire 4 [942]

Perplesso4
Da cosa deriva, possibilmente con precisione, questo modo di dire?

Revisione del testo: 7  novembre 2021 ore 16:15  – Revisione delle immagini: 6 novembre 2021.  – {Il racconto è un racconto in parte umoristico ed in parte non troppo coerente: serve per evidenziare l’uso dei modi di dire. Nell’ultima parola di ogni modo di dire, si trova un apice0 che rimanda ad una nota alla fine dell’articolo, la quale, a sua volta, cerca di spiegare il modo di dire stesso. Sono omessi i modi di dire banali del tipo ‘mi faceva gli occhi dolci ’, dove il modo di dire si spiega da sé.}

Racconto:

Da alcuni anni avevo deciso di fare la guardia giurata: lo sapevo di fare un salto nel buio1 ma, nonostante il pericolo di lasciarci le penne2, il lavoro mi affascinava: il vero motivo forse era che in famiglia ero sempre stato considerato la pecora nera3: i miei fratelli, forse perché ero il più giovane, mi mettevano sempre il bastone tra le ruote4 e cercavano di mettermi in cattiva luce5 coi miei genitori ma io davo loro del filo da torcere6, perché reagivo in modo furibondo ad ogni provocazione. Se non avessi fatto così, sarei passato ogni giorno sotto le forche caudine7. Mio padre, ogni tanto, interveniva ma partiva con l’idea che il provocatore fossi io, mentre i miei fratelli cadevano dal pero8: insomma, facevano sempre a scaricabarile9. Ormai mio padre aveva un diavolo per capello10: era stanco di vedere i figli che litigavano in continuazione. Ogni tanto, parlava con mia madre ma lei se ne lavava le mani11 : “Sono ragazzi… ed io ho la casa da accudire…”. Ma oramai, a forza di sentire che era sempre colpa mia, le era entrata la pulce nell’orecchio12. Un brutto giorno, mi accorsi che anche mia madre, ingiustamente, aveva iniziato con le filippiche13: mi diceva se per caso non mi avesse dato di volta il cervello14, che avrei dovuto rigare diritto15, che non potevo tirare sempre la corda16 e che mi stavo scavando la fossa17 con le mie mani. D’ altronde, se tutti  dicevano che era colpa mia… sarà stato pur vero… almeno in parte… concludeva che, se non volevo rimanere con un pugno di mosche18, avrei dovuto rimboccarmi le maniche19 e fare qualcosa per rimettermi in sesto20. I discorsi di mia madre mi lasciarono l’amaro in bocca21: cominciai a rodermi il fegato perché i miei fratelli, anche con mia madre, erano riusciti a rivoltare la frittata22. Non avrei mai creduto che anche mia madre, di solito equilibrata, avesse potuto prendere lucciole per lanterne23. Mi convinsi che dovevo render loro (ai miei fratelli) pan per focaccia24 e che era inutile piangere sul latte versato25. Riflettei a lungo e poi decisi che i conti non tornavano26 e che il dado era tratto27: avrei levato le tende28. Bisognava far tabula rasa29, a costo di fare un patto col diavolo30. Andai da mia madre per dirle che me ne andavo, che tutto sarebbe andato liscio come l’olio31, che non stesse in pensiero, che si era fatta influenzare dai miei fratelli e che a lei non portavo rancore ma che il comportamento dei miei fratelli me lo sarei  legato al dito32. Nessuno aveva mai spezzato una lancia a mio favore33. Avevo deciso così di tagliare la testa al toro34, di tagliare i ponti35 col passato e di andarmene, per farmi una vita mia. Mio padre, allora, mi disse: “Figlio mio, non voglio tarparti le ali36 ma, là fuori, nel mondo, troverai pane per i tuoi denti37…”

Gli risposi: “Papà, o la va o la spacca38: so benissimo che dovrò tirare la cinghia39 ma mi trovo tra l’incudine e il martello40: farmi sopportare dai miei familiari o affrontare la vita? penso di avere la pelle dura41: se restassi qui, in famiglia, farei un buco nell’acqua42. I miei fratelli hanno raschiato il fondo del barile43: non ho carattere di star qui a recriminare, con voi e con loro. Addio a tutti.”

[segue]

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Spiegazioni:

  1. Fare un salto nel buio: gettarsi da una finestra nel buio, confidando di essere a pian terreno. Ma si potrebbe essere al secondo piano… prendersi un rischio di cui non siamo in grado di valutare le conseguenze.
  2. Lasciarci le penne: il pollo, quando viene ucciso, ci lascia le penne. Significa quindi morire. Si tratta di una ovvia banalità, se non fosse che certi letterati, in vena di modernità, hanno modificato il detto nel seguente modo: lasciarci le penne stilografiche.
  3. Essere la pecora nera: come si può intuire, la sua origine è da ricercarsi nell’ambito dell’allevamento ovino, in cui un tempo la pecora nera era quella meno amata e spesso esclusa dalla tosatura perché la sua lana, a differenza di quella bianca, non poteva essere tinta. Inoltre, lo stesso colore nero, di per sé, era considerato un segno del male e legato alla sfortuna. Nonostante oggi la lana autenticamente nera sia divenuta pregiata e il suo mercato sia divenuto di nicchia, l’espressione continua ad essere utilizzata con un’accezione negativa.
  4. Mettere il bastone tra le ruote: creare appositamente degli ostacoli inesistenti per intralciare qualcuno. Ovviamente, deriva dal fatto che, infilando un bastone tra i raggi in legno delle ruote di un carro agricolo, se ne impedirà il movimento o, quanto meno, lo si disturberà.
  5. Mettere in cattiva luce: dare un’immagine negativa di qualcuno o di qualcosa mettendone in risalto i lati peggiori, come ponendo un oggetto in un punto in cui l’illuminazione gli risulta sfavorevole.
  6. Dare del filo da torcereNell’industria della tessitura, le donne erano le protagoniste della torcitura, perché le loro mani sono più piccole, agili e delicate.
    FiloDaTorcere
    Fili di seta sottilissimi vengono attorcigliati dalla mano d’opera femminile per conferire agli stessi maggior consistenza.

    Quello di torcere il filo era un compito molto difficile, perché i fili da avvolgere erano spesso irregolari e dalla superficie ruvida. Delle dita screpolate, infatti, potevano causare danni al filo che prima di essere torto era molto delicato. Per questo motivo alle filatrici veniva distribuita una crema per le mani che le donne erano obbligate ad utilizzare dopo ogni lavaggio delle mani. All’ingresso nelle filande le mani delle filatrici erano accuratamente controllate dalle maestre che allontanavano chi non si era adeguata alle richieste dell’azienda e non aveva quindi le mani perfette. Chi non aveva, quel giorno, le mani in perfette condizioni, perdeva la giornata di lavoro. Nella sinistra Piave, le donne che andavano a lavorare in filanda per la seta, si chiamavano ingropìne [annodatrici]. Il nome deriva dal fatto che tali lavoranti, oltre che torcere i fili di seta, annodavano (ingropàr) i delicatissimi e sottilissimi fili di seta, quando gli stessi si rompevano durante la torcitura. In senso traslato, ‘dare del filo da torcere’ significa quindi creare degli ostacoli per rendere più difficile il compito di qualcuno.

  1. Passare sotto le forche caudine: la frase significa subire una grave umiliazione o una prova mortificante. Il modo di dire risale addirittura all’antica Roma, e precisamente alla seconda guerra sannitica, nel 321 a.C. Osservando, dalle loro fortezze, gli spostamenti delle legioni romane, i sanniti riuscirono a intrappolare ben 20 mila soldati dentro alla gola di Caudio (tra le odierne province di Napoli, Benevento e Avellino). Con massi e alberi divelti, chiusero gli unici due ingressi della vallata e sbarrarono ogni via di fuga ai nemici. Quando, la notte, i Romani si videro circondati dalle fiaccole sannite, capirono che rimaneva loro solamente la resa. A sorpresa, però, dopo essere passati, disarmati e forse nudi, sotto un giogo (le “forche”), i prigionieri furono rilasciati. Perché mai? secondo fonti antiche, affinché la mortificazione lasciasse un segno nel loro animo. Ma per gli storici moderni, i sanniti volevano evitare l’insurrezione delle altre genti latine di fronte ad un massacro. Ecco il racconto dello storico padovano Tito Livio (Storie, IX, 5): «…e venne l’ora fatale dell’ignominia;  …prima i consoli, quasi nudi, furono fatti passare sotto il giogo; poi, gli altri, in ordine e grado furono sottoposti alla stessa ignominia; infine, ad una ad una, tutte le legioni».
  2. Cascare dal pero: un tempo, c’era un’espressione per chi parlava difficile e cioè stare sulla cima degli alberi. Quindi un parlar forbitissimo, saccente… ma se commetteva un errore dialettico… cascava dal pero… nel Decamerone, il Boccaccio parla di Pirro, che ingannava Nicostrato, facendogli credere che dalla cima dei peri si potesse assistere a visioni erotiche e magiche… poi, il risveglio alla realtà…
    Il pero può raggiungere i 17 metri di altezza e lassù si è isolati dal mondo.
  3. Fare a scaricabarile: gioco da ragazzi, consistente nel porsi schiena contro schiena e, tenendosi con le braccia incrociate e piegate, alzarsi l’ un l’altro, a vicenda più volte: giocare, fare a scaricabarile. Significa che ci sono due (o più) persone che cercano di esimersi dai propri doveri e responsabilità, riversandoli l’una sull’ altra.
  4. Avere un diavolo per capello: solitamente, i capelli sono tanti ed ogni diavolo presenta un problema diverso. Significa pertanto avere tanti problemi. Quando l’allenatore Capello si occupava del Milan, si poteva ben dire ‘avere un Diavolo per Capello’. Questo sarebbe  il momento di sorridere.
  5. Lavarsene le mani: viene dal comportamento di Ponzio Pilato, che non volle interferire col Sinedrio nel giudizio su Gesù.
  6. Mettere la pulce nell’orecchio: se una pulce camminasse liberamente per davvero dentro un orecchio, trattandosi di un insetto dalle minuscole dimensioni e per di più parassita, sarebbe decisamente fastidioso, non piacevole e comunque causerebbe un forte disturbo: ecco perché quando qualcuno ‘mette una pulce nell’orecchio’ di un’altra persona, quest’ultima non rimane indifferente e, probabilmente, cercherà di scoprire i dettagli di quanto gli è stato detto, per capire se può essere vero o meno.
  7. Fare una filippica: l’espressione riguarda Filippo II°, re di Macedonia e padre di Alessandro Magno. Demostene, uno dei più grandi oratori del tempo, dotato di un’ eloquenza capace di trascinare, esaltare e convincere la folla, riteneva Filippo un vero pericolo per Atene. Con il proposito di contrastarlo, pronunciò diverse orazioni, dette appunto “filippiche”, nelle quali sosteneva la necessità di formare un fronte greco compatto contro l’avanzata del re di Macedonia. Per questo motivo, ‘fare una filippica’ significa pronunciare un discorso, dal tono acceso e acerbo, contro qualcuno. Nel linguaggio comune, il termine viene spesso utilizzato anche in senso ironico.
  8. Dare di volta al cervello: sragionare, o impazzire improvvisamente, come se il cervello si fosse capovolto. In senso lato, si usa anche per una persona che si comporta inaspettatamente in maniera bizzarra o pretende cose assurde. Già Ludovico Ariosto parla di Orlando e di ciò che disse, un momento prima che il cervello gli desse la volta.
  9. Rigare diritto: l’ invito a rigare dritto significa che si chiede a qualcuno di comportarsi bene, a proseguire come accordato. Bisogna quindi seguire la strada che si sta percorrendo, senza prendere deviazioni e senza illudersi.
  10. Tirare la corda: la corda è quella dell’arco, se si tira troppo, si rischia di romperlo. È la traduzione libera del detto latino arcus tensus saepius rumpitur [l’arco teso si rompe frequentemente], cioè, se si approfitta troppo a lungo di una persona o di una situazione, si rischia una spiacevole reazione, o anche, se si tira per le lunghe un discorso, si finisce per infastidire chi lo ascolta.
  11. Scavarsi la fossa: l’immagine è drammatica. Convinto di far bene, in realtà il nostro eroe si sta rovinando con le sue mani; non se ne rende nemmeno conto ma si sta scavando la fossa, sinonimo di tomba. 
  12. Rimanere con un pugno di mosche: l’espressione significa rimanere senza niente in mano, non aver guadagnato nulla. Infatti, un pugno di mosche è totalmente inutile, non ha alcun valore né alcuna utilità, anzi, è una cosa fastidiosa.
  13. Rimboccarsi le maniche: mettersi a lavorare con impegno, sapendo di dovere affrontare sforzi e fatiche. Usato principalmente per chi si trova in condizioni di bisogno, soprattutto per rimediare a una forte perdita o a un grosso danno, con il senso di essere costretti a ricominciare da capo.
    Se lavori col vestito della festa, puoi accampare delle scuse: ‘non vorrei sporcarmi… ho l’abito buono…’ beh… allora rimboccati le maniche e così il vestito non lo sporcherai. Non accampare scuse: è ora che tu ti metta al lavoro seriamente.  
  14. Rimettersi in sesto: vuol dire guarire da una malattia, o da un infortunio, oppure aver aggiustato la propria situazione economica. L’espressione deriva dal gergo tecnico-architettonico. ‘Sesto’ anticamente voleva dire ‘compasso’, cioè lo strumento che permette di misurare e tracciare un cerchio, e in architettura definisce proprio la curvatura di un arco (a tutto sesto, a sesto acuto eccetera), elemento chiave nel sostegno dei pesi di una costruzione. Il significato è, pertanto, ritrovare un corretto e solido assetto.
  15. Restare con l’amaro in bocca: dopo un’azione portata a termine, non provare la soddisfazione che ci si era aspettati, essere delusi o amareggiati. Potrebbe derivare dai piccoli malesseri che spesso seguono una notte di bagordi. In effetti, l’eccesso di alcool e di fumo porta facilmente a risvegliarsi con uno sgradevole sapore amarognolo in bocca. Ci si aspettava molto dalla notte di svago, ma quel che è rimasto è solo l’amaro in bocca.
  16. Rivoltare la frittata: si vuole far riferimento alla volontà, da parte di una persona, di far vedere un aspetto che è esattamente il contrario di quello reale, quello vero, con la volontà di ingannare il suo prossimo. Colui che rivolta (gira) la frittata fa apparire una cosa secondo la propria convenienza e non conformemente alla realtà.
  17. Prendere lucciole per lanterne: commettere un vistoso errore di confusione. Prendere una cosa per un’ altra.
  18. Rendere pan per focaccia: la frase è riferita a chi ricambia con eguale o maggiore asprezza una offesa, un torto o un danno ricevuti. L’origine del motto è sconosciuta, ma già nell’antica Roma erano in uso simili sentenze. Il detto deriva, probabilmente, da una usanza dei viandanti medievali che si portavano appresso un pane fatto non con il frumento ma con cereali poveri, quindi poco lievitato e duro ma facilmente trasportabile, in quanto ammuffiva difficilmente e poteva essere intinto nelle varie zuppe preparate lungo il viaggio. Questi pani venivano cotti direttamente sulla brace e perciò chiamati focaccia, da focacius [cotto sul fuoco] ed erano un prodotto molto meno pregiato del pane vero e proprio fatto con  farina di frumento.  ‘Rendere pan per focaccia’ significa proprio ricambiare un torto. Mi hai dato un pane (che equivale a farmi un torto) ti ricambio con una focaccia (che vale un torto e mezzo). Si trova traccia di questo modo di dire anche nell’ottava novella del Decamerone di Giovanni Boccaccio, dove la moglie di un certo Zeppa dice alla moglie di un certo Spinelloccio: “Madonna, voi m’avete renduto pan per focaccia”.
  19. Piangere sul latte versato: inutile disperarsi per qualcosa che è già successo; bisognava pensarci prima. Il detto è tratto da una famosa favola di Esopo: la lattaia. La favola narra che una lattaia, andando al mercato per vendere il latte, fantasticasse su cosa avrebbe potuto comprare con i soldi ricavati dalla vendita. Pensò che avrebbe potuto comprare degli animali. E poi si disse che, se li avesse fatti crescere, li avrebbe potuti rivendere e guadagnare ancora di più. Andò avanti a fantasticare così, ma inciampò e il latte le cadde e, con esso, tutti i suoi sogni: piangere non serve. Consolati e poi elabora a mente fredda un piano più efficace. Nel mondo del business, gli imprenditori che hanno avuto successo, lo hanno ottenuto inseguendo un sogno, spesso dopo aver sbagliato più volte.
  20. I conti non tornano: ovviamente, non volevamo pubblicare questo modo di dire perché la spiegazione è banale. Ci riferiamo invece a questo aneddoto divertente: due nobili personaggi della Transilvania, due conti, si trovarono confinati per il maltempo in un isolotto e volevano mandare un messaggio al loro castello, dove la servitù li attendeva. Si erano portati appresso un piccione viaggiatore. Scrissero su un pezzetto di carta: 5 + 3 =11 e 4 + 5 =25. Poi attaccarono il pezzetto di carta sulla zampa del piccione viaggiatore e lo liberarono. Il piccione tornò alla sua piccionaia, nel castello e un maggiordomo lesse il messaggio. Poi, comunicò al personale che la cena era sospesa e che tutti potevano considerarsi in libera uscita. A chi gli chiedeva il perché, rispondeva, con sussiego: “I conti non tornano.”
  21. Il dado è tratto: alea jacta est è la frase che Svetonio fa dire a Giulio Cesare, fermo sul Rubicone coi suoi eserciti, da parecchio tempo. Il Rubicone si trova in Romagna e sfocia nel Mediterraneo a sud di Cesenatico. Tale fiume costituiva il limite, stabilito dal Senato romano, oltre il quale le truppe non potevano avanzare, con le armi, verso Roma. Passare il Rubicone significava andare contro al Senato, cioè significava aprire la seconda guerra civile (che poi oppose Giulio Cesare a Pompeo): alcuni ufficiali di Cesare erano dell’opinione di passare il fiumiciattolo, altri no. Cesare fingeva sempre di ascoltare ma, alla fine, decideva lui. Svetonio aggiunge che Cesare aveva già deciso di passare il Rubicone ma finse di lanciare un dado (alea) per far vedere che affidava il futuro alla sorte. Lanciò il dado e disse che la risposta della sorte era quella di andare con l’esercito a Roma. Il significato è quindi: “Ho deciso!”
  22. Levare le tende: usiamo questo modo di dire per indicare che dobbiamo lasciare il luogo dove ci troviamo. Il riferimento è piuttosto evidente: quando si lascia un accampamento, le tende, che ci hanno ospitato per la notte, vanno necessariamente smontate. Ciò implica una rinuncia ad una determinata azione, un cambiamento di opinione.
  23. Fare tabula rasa: si sente dire che sarebbe la tavola dove si mangia e dove si è consumato tutto. Non è così. La tabula [tavola, in latino] non era la tavola dove si mangiava, bensì la tavoletta cerata che si usava per scrivere. Per riscrivere, non restava altro che re-incerare la tavoletta e riusare lo stilus o graphium di osso, di legno o di metallo. Si raschiava (rasava) la tavoletta togliendo gli eccessi di cera e la tavoletta era pronta per riiniziare da capo. Il significato è quindi quello di ripartire da zero.
  24. Fare un patto col diavolo: è un accordo di scambio, in cui un uomo cede la propria anima al diavolo per ottenere da questi, in cambio, benefici di vario genere, quali ricchezza, talenti o poteri sovrannaturali. Il tema, molto comune, è trattato in leggende, racconti e opere letterarie. Quando una persona rischia, rischia e rischia ancora e le cose gli vanno bene, al di là di ogni credibile fortuna, si dice che costui avrà fatto un patto col diavolo.
  25. Liscio come l’olio: espressione marinara. Anticamente, per cercare di attenuare la potenza delle onde generate da una tempesta, i marinai erano soliti gettare nel mare dell’olio. L’acqua ha sempre delle piccole increspature, ma se versate qualche botte di olio sopra il mare… il mare diventa liscio. Si dice che, in segno di rispetto per il Doge, quando si imbarcava ogni anno sulla bissona (grande barca da cerimonia) per lo sposalizio col mare, che avveniva al largo di Malamocco, dove il Doge gettava in mare un anello d’oro, i veneziani versassero alcune botti di olio in laguna, davanti a San Marco, per facilitare l’accesso del Doge alla bissona.
  26. Legarsela al dito: si riferisce ad un’ antichissima tradizione, secondo cui venivano legate alle mani delle piccole strisce di pergamena, contenenti i precetti religiosi, per non rischiare di dimenticarli. Anticamente, inoltre, in Turchia, i cavalieri legavano un filo d’oro al dito dell’amata, come promessa d’amore eterno. Il filo d’oro legato al dito dell’amata è diventato poi un anello. Col tempo, il tratto ‘romantico’ è del tutto sparito e, oggi, indica soltanto la volontà di non dimenticare un torto subito, aspettando il momento giusto per vendicarsi.
  27. Spezzare una lancia a favore di qualcuno: prendere le difese di una persona che, per qualche motivo, viene attaccata. Questo modo di dire è connesso all’epoca medioevale: la frase richiama gli antichi tornei cavallereschi dove, appunto, il fatto di spezzare una lancia equivaleva a dichiararsi pronti a battersi. Una specie di guanto di sfida. Non era insolito, inoltre, che i cavalieri fossero disposti a combattere per difendere l’onore di chi non poteva tutelarsi da solo (una dama, per esempio). Al giorno d’ oggi, chi spezza metaforicamente una lancia è pronto ‘a battersi’ per difendere la reputazione di un individuo da critiche o insulti, oppure per portare avanti una sua causa.
  28. Tagliare la testa al toro: definire una volta per tutta una determinata questione, prendere una drastica decisione, adottare una decisione definitiva ed espressioni simili; ciò a prescindere dal fatto che la scelta comporti un rischio, un danno o una rinuncia. In pratica, ‘tagliando la testa al toro’ si rompono gli indugi e si compie una determinata scelta
    Secondo alcuni, l’origine è da ricercarsi in un racconto popolare che vede come protagonista un toro, che decise di infilare la testa all’interno di una giara molto preziosa senza però poi riuscire a tirarla fuori; il proprietario di entrambi, molto avaro, non sapeva che soluzione adottare per risolvere il problema; alla fine, consigliato da un amico, decise che, per salvare la giara, l’unica soluzione possibile rimaneva quella di tagliare la testa al toro.
    La maggior parte delle fonti, però, propende per un’altra spiegazione. Si deve tornare indietro nel tempo, per l’esattezza al 1162, quando il patriarca di Aquileia, Ulrico di Treven, decise di conquistare la città di Grado, all’epoca governata, per la Serenissima Repubblica di Venezia, dal doge veneziano Enrico Dandolo. In un primo tempo, Ulrico ebbe la meglio ed Enrico Dandolo, per salvarsi, dovette riparare a Venezia; la Serenissima aveva però grandi interessi economici a Grado e non poteva permettersi di perderla; vi fu quindi un contrattacco che portò alla cattura di Ulrico, di 12 chierici e di 12 feudatari. Le condizioni che Venezia impose per la restituzione del patriarca di Aquilea furono molto particolari e umilianti; il fine era quello si sconsigliare chicchessia dall’ effettuare futuri attacchi ai possedimenti di Venezia; in pratica, tutti gli anni, nel giorno di giovedì grasso, il doge di Aquileia doveva consegnare ai veneziani 12 pani (che rappresentavano i feudatari), 12 maiali (che rappresentavano i chierici) e un toro (che rappresentava il patriarca), da consegnare ai cittadini durante un pubblico spettacolo; pur conscio della grande umiliazione, il patriarca di Aquileia, per avere di nuovo la sua libertà, finì per accettare. Durante la festa i pani venivano distribuiti al popolo, i 12 maiali venivano uccisi e la loro carne era distribuita ai senatori della Serenissima, mentre al toro veniva tagliata la testa, nel corso di una celebrazione dal grande valore simbolico, allestita nella grande Piazza San Marco.
  29. Tagliare i ponti: significa troncare in modo definitivo i rapporti, le relazioni con qualcuno, in modo da non lasciare alcuna possibilità di cambiare idea e tornare sulle decisioni prese o di provare una eventuale riappacificazione. Può indicare anche l’abbandono di una circostanza, un genere di vita. L’ origine della locuzione è legata al fatto che in passato, quando i confini di una città o di una proprietà erano segnati da fiumi, i ponti costituivano l’ unico modo per accedervi. In caso di rottura di rapporti, i ponti venivano tagliati per evitare incursioni da parte del nemico.
  30. Tarpare le ali: tagliare la punta delle ali ad un uccello, per impedirgli di volare; impedire a qualcuno di esprimere una sua capacità. Nel Veneto, le massaie tagliano la punta delle ali alle galline per impedire loro si svolazzare fuori dall’ aia. Più le ali sono tagliate e più aumenta il peso della gallina per superfice alare e ciò rende il volo più difficile. Dal latino estirpare. Poi estarpare ed infine tarpare. Cavare o tagliare le penne agli uccelli per togliere loro (o diminuire) la facoltà di volare. Scemare la forza, il potere, l’autorità di qualcuno. Cavar le penne maestre a qualcuno. Francese: Rogner les ongles à quelqu’un. [Tagliare le unghie a qualcuno].
  31. Trovare pane per i propri denti: trovare un degno antagonista, o anche trovare una situazione adatta ai propri desideri o interessi, alle proprie forze, alle proprie capacità. Il detto contiene sempre un’idea di sfida, di confronto, di verifica del proprio valore.
  32. O la va o la spacca: c’è un chiodo tenuto verticalmente da una mano, su di una tavola di legno e l’altra mano brandisce un martello. O va la martellata o si spacca la tavoletta… esiste infatti un vecchio detto marchigiano: “O ‘bbocca lo chiodo o spacco la tavoletta [O entra il chiodo o si rompe la tavoletta]. Esempio: “Questa cosa, la devo fare per forza. O la va o la spacca”. Qualunque cosa possa poi succedere, lo voglio fare.
  33. Tirare la cinghia: digiunare, saltare i pasti, in genere per ragioni economiche. Quindi in senso lato, soffrire la fame, subire privazioni. La cinghia è quella dei pantaloni: non mangiando si dimagrisce, la cinghia diventa larga e quindi bisogna stringerla.
  34. Tra l’incudine e il martello: in una situazione difficile. Minacciato contemporaneamente da due pericoli. Come un pezzo di ferro posto sull’incudine e percosso dal martello.
  35. Avere la pelle dura: anticamente, significava che nemmeno le coltellate lo potevano scalfire perché aveva la pelle dura. Tetragono ad ogni maltrattamento. Oggi si dice ‘è un duro‘ ma il significato è chiaramente ripreso da quello antico.
  36. Fare un buco nell’acqua: quando una persona si dà da fare e gli altri, che vedono ciò che fa, lo giudicano assolutamente inutile, diranno: “Stai facendo un buco nell’acqua. Stai facendo un lavoro assolutamente inutile.”
  37. Raschiare il fondo del barile: cercare di recuperare quanto possibile in una situazione ormai disperata; attingere alle ultime risorse, sia materiali che psicologiche, per trarsi d’impaccio. Fare gli ultimi tentativi.

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