Contadini 7 [423]

pasquaRevisione testo: 16 settembre 2021 – Le tradizioni si scoprono nei comportamenti durante le feste o nei giorni precedenti, perché, dopo la ricorrenza, come dice il proverbio popolare, il santo non festeggiato viene dimenticato.    

Veramente il primo a parlarne sembra essere stato Fedro nella famosissima favola del lupo che chiede alla gru di togliergli un osso conficcatosi in gola: non appena la gru gli ha tolto l’osso, il lupo le dice: “Ringrazia gli dèi, ché non ti ho mangiata”.

A questo punto, giova ricordare il precetto del digiuno e dell’astinenza, dove per astinenza si sottende quella dei piaceri coniugali. Ebbene, la stragrande maggioranza di noi lo capisce tardi, da adulti, anche perché il precetto non è chiaro ed io ho sentito il parroco dire: “Sempre carne da gustare è, anche quella matrimoniale”.

Non si mangiavano, tra il popolo, dolci diversi dalla focaccia fatta dalle mamme, dalle zie e dalle nonne. Nessuno si sognava, neanche lontanamente, di andare in pasticceria e non solo per una questione di soldi: il giorno di Pasqua, se si fosse mangiato un dolce diverso dalla focaccia domestica, per le donne di casa sarebbe stato un enorme disonore.

E poi, c’erano le uova. I ragazzini andavano dal tabaccaio e comperavano le cartine colorate per alimenti. Le mamme cominciavano otto giorni prima di Pasqua a raccogliere le uova: nei pollai, dove si raccoglievano le uova degli animali da cortile ma ci si procurava anche le uova di quaglia, piuttosto rotonde, grigie e picchiettate di marrone e le uova di tortora, bianche e piuttosto piccole. Era compito dei ragazzini avvolgere le uova con le cartine colorate apposite, dopodiché la mamma le faceva bollire e il colore delle cartine, atossico, si depositava sulla scorza delle uova, colorandole. Molte volte, per risparmiare sulle cartine o per non mandare i ragazzini in paese, si usava il succo di ortica bollito per dare alle uova un bel colore verde. Si usavano anche fiori vari e di vari colori. A questo punto, con calamaio, canotto e pennino, i ragazzini più grandicelli scrivevano ‘Buona Pasqua’, con la lettera q, possibilmente senza sbagliare. Le uova erano allora pronte. La mamma allestiva un piccolo canestro con dei fiori e qualche foglia e vi adagiava sopra le uova pasquali. Le uova si mangiavano in due modi: chi le mangiava prima del pranzo pasquale e chi dopo la focaccia, col vino dolce. Le uova che eventualmente rimanevano, se passava qualche povero, anche a Pasquetta, era fatto obbligo morale di regalarle, altrimenti, dopo Pasquetta, si potevano nuovamente mangiare in famiglia.

Il numero delle uova raccolte nell’ ottavario precedente era un indice dell’abbondanza dell’anno in corso: più uova c’erano e più prosperoso sarebbe stato l’anno.

Si credeva fermamente al proverbio tradizionale: Se no pióve su ła ràma, pióve sui vòvi.[O la domenica delle Palme oppure a Pasqua, pioverà].  Si credeva al proverbio a tal punto che, se la domenica delle Palme era stato bel tempo, la tavolata del pranzo di Pasqua veniva preparata in cucina, altrimenti sull’aia, temperatura permettendo.

N:B. Il dialetto della Sinistra Piave pronuncia vòvi, con la ‘o’ larga.  Il dialetto veneziano, invece, pronuncia vóvi, con la ‘o’ stretta.

La focaccia (fugàssa) pasquale era fatta con farina, zucchero, burro, lievito e uova. La focaccia si glassava con uova e mandorle pelate, mettendoci sopra grossi grani di zucchero. Se volete la ricetta tradizionale, potete trovarla qui.

Nelle famiglie abbienti, si poteva fare anche una ciambella, che era un anello con lo stesso impasto, solo che in metà ciambella veniva aggiunta anche polvere di cacao. Sono dolci che richiedono lunghe lievitazioni.

Naturalmente, nelle campagne, le uova di cioccolato avrebbero dovuto aspettare anni, prima di comparire.

Il menù era semplice:

  • Uova colorate come antipasto, a meno che non si mangiassero a fine pasto.
  • Non si mangiavano altri antipasti di insaccati perché il salame già si mangiava tutti i giorni. In compenso, c’era il pane fatto in casa e messo a cuocere tra brace e cenere del caminetto (larìn, dal nome degli dèi latini làri, protettori della casa) e sempre un poco sporco di cenere, che dava alle pagnotte un profumo inconfondibile, specialmente se il fuoco era stato fatto con legno di vite.
  • Brodo di gallina e di oca con pasta fatta in casa, magari cappelletti o piccoli ravioli con dentro salsiccia, spinaci e formaggio.
  • Un risotto (rosso, con la conserva di pomodoro) fatto con le frattaglie della gallina e dell’oca.
  • Carne lessa di oca e di gallina, di cui sopra.
  • Agnello arrosto con la salvia (se la famiglia era abbiente).
  • Vino rosso, rarissimamente vini bianchi.
  • Niente formaggi perché il formaggio si mangiava tutti i giorni.
  • I dolci (focaccia e ciambella) con un vino rosso dolce, passito e liquoroso, di solito vino fragolino o, raramente, vino ancillotta. Il passito era roba da nababbi.
  • Caffè fatto con la napoletana.
  • Grappa per tutti, purché al di sopra dei cinque anni di età.
  • Finito il pranzo, si mangiavano le uova colorate (se non si erano mangiate prima come antipasto).
  • Un bambino o una bambina recitavano una poesia bene augurante.
  • La radio nel sottofondo era accesa e (quasi sempre) sintonizzata su Capo d’Istria che trasmetteva gli auguri di Pasqua e dei vari compleanni.
  • Se c’erano uomini sufficienti, seguiva una partita a carte (briscola, tressette, scopa, scopa con l’asso oppure al ðogołón, gioco trevisano). Magari con un altro grappino.
  • Se la famiglia era benestante, per quelli che tornavano il giorno di Pasquetta, si finivano gli avanzi della Pasqua e si faceva una bella tombola, con premi d’affezione (un mandarino, delle noci eccetera).

Lascia un commento