Città di Venezia 12 [505]

Excelsior1964
Venezia, Lido, estate 1964 – Il lussuosissimo Relax dell’Hotel Excelsior, antistante alla spiaggia dell’albergo stesso: i clienti possono chiedere delle consumazioni. Oltre che nei tavolini, le consumazioni possono essere portate nella spiaggia da camerieri impeccabilmente vestiti. Nel Relax, un’orchestrina sulla destra (non visibile) intrattiene il pubblico con canzoni alla moda e con classiche sonate per pianoforte – Ernesto Giorgi ©

Revisione testo: 9 dicembre 2021 – [Seguito di Città di Venezia 11] – Ricordo che, negli anni ’50, i ragazzini veneziani facevano il bagno pomeridiano e la merenda in fretta e in furia perché alle Quattro Fontane, sulla spiaggia, c’erano le marionette di Maria Perego, che successivamente, nel 1959, creò anche Topo Gigio.

Maria Perego è nata a Venezia nel 1923 e i bambini che guardavano il teatrino delle marionette di Maria, seduti sul bagna-asciuga con in mano il panino con la marmellata (tra i quali c’ero anch’ io) erano ogni giorno parecchie centinaia. Poi, guardando la televisione, ho rivisto Maria. Il primo personaggio-marionetta fu Picchio Cannocchiale. Poi c’erano le marionette Faccanappa, Brighella, Pulcinella eccetera.

D’estate, a Venezia, non si andava molto in friggitoria, perché il fritto, col calore estivo, risultava forse piuttosto pesante. Si preferivano, in genere, dei locali caratteristici di Venezia, quasi delle trattorie, che avevano come insegna, ad esempio, Brónsa da Toni, oppure A la vècia brónsa. Tale parola significa ‘brace’. Quindi ‘alla brace’ ma non di carne, bensì di pesce. Le trattorie brónsa avevano tra l’altro un regime fiscale agevolato dal Comune, in quanto erano considerati locali popolari tradizionali e, per esempio, non pagavano il dazio sul pesce. Il dazio era una tassa comunale, una specie di Iva, che oggi non c’è più.

Il menù non era molto vario ma il cibo era veramente buonissimo. La pietanza migliore che vi potesse capitare era lo scorfano grande, fatto per l’appunto alla brace, una cosa commovente, preceduto magari da un risotto bianco e nero, dove la parte bianca è risotto di go (gopius mediterraneus) e l’altra parte è il risotto col nero di seppia. Con tale piatto, oltre ovviamente ad altri piatti, il ristorante ‘da Romano’, a Burano, ha avuto la stella Michelin.

In questi locali si trovavano spessissimo dei grossi calamari, provenienti dalla Croazia, che, fatti alla brace, erano buonissimi. Oppure dei gamberetti chiamati schille (schìe), fritte oppure lesse con olio, aglio e prezzemolo tritato, con la polentina morbidissima che faceva da letto per le schìe. Dato che non pagavano il dazio, i proprietari delle brónse andavano a comperarsi il pesce direttamente a Caorle, via mare, risparmiando ancora di più e comperando solo pesce freschissimo.

Insomma, locali seri, di poca apparenza e di moltissima sostanza, dove il segreto sembrava essere l’enorme quantità e la poca varietà dei pesci comperati dall’oste. Questi piatti, identici, non migliori, serviti nei migliori ristoranti del tempo (Vècia Carbonèra, La colómba, El gràspo de ùa, La vècia cavàna, Agli assassini, Harry’s bar, Antìco Martini, solo per citarne alcuni), li avreste pagati, come minimo, cinque volte di più. Inoltre, in alcune brónse, segnatamente a San Lìo, alla Bràgora e in Rùga Riàlto, veniva servito quasi ogni giorno il brodetto di pesce, che non è una minestra ma un piatto unico, richiedente almeno sette specie diverse di pesce.

Il brodetto costava, anche allora, abbastanza ma nelle brónse non costava in modo proibitivo. Cercatevi la ricetta su Internet. C’erano due pesci che erano buonissimi e che costavano poco e che ora costano un occhio della testa: il Pesce San Pietro (zeus faber) e la Coda di Rospo (rana pescatrice, lophius piscatorius). Non si sa bene il perché del cambiamento enorme del prezzo. 

C’era poi il piatto che veniva gustato da chi amava il piccante: i gamberóni a ła bùsara, di origine croata. Lo stesso piatto, usando tuttavia al posto dei gamberoni degli scampi, che sono più pregiati, si trovava nei migliori ristoranti, come quelli prima citati. Un piatto del genere, denominato ‘Gamberi alla Gambrinus’, si gustava sino a poco tempo fa anche nel ristorante omonimo a San Polo di Piave, in quel di Treviso. Il ristorante si trova proprio sopra ad una sorgente di acqua limpidissima, popolata da gamberi.

Sempre d’estate e sempre nelle brónse si mangiavano i bovoéti, lumachine di mare o di terra, lessate con olio, aglio e prezzemolo e con polenta bianca abbrustolita alla brace, a fette. Sono le stesse lumachine che i siciliani chiamano babbalùci.

Il vino non era, non è e non sarà mai un gran che, sia a Venezia che a Trieste, ché sono città di mare. Naturalmente, parliamo del vino sfuso, perché in bottiglia, se la bottiglia è ermetica, non esiste tale problema. Il salso dell’aria rovina il vino sfuso. Notare che il bianco si rovina molto più facilmente.

Il famoso bàcaro, vino con bacche di ginepro messe a macerare, significa per l’appunto ‘vino con le bacche’. Con le bacche di ginepro, il bàcaro (di solito raboso veronese) non va in aceto: ha un gusto che non a tutti può piacere (anzi, inizialmente, non piace proprio a nessuno) ma che ancora oggi suscita molti ricordi. Il nome bàcaro si è poi diffuso anche fuori Venezia e parecchie enoteche oggi si chiamano così. Si tratta, insomma del locale che ha preso il nome di un prodotto.

Il nome del vino con le bacche di ginepro ha quindi dato il nome ad alcuni locali (tale modo di definire tutto il locale con il nome di una cosa o di un piatto o di una bevanda servita nel locale viene detto sineddoche [che significa ‘comprendo più cose assieme’], e viene dal greco συνεκδοχή). A proposito di Grecia, in tale paese il problema per il vino bianco è stato risolto aggiungendovi resina di conifere. Il vino si chiama per l’appunto  Ρετσίνα, Retzìna, cioè vino con la resina, vino resinato. Abituarsi a bere il vino bianco con la resina è veramente impegnativo: mentre si beve, sembra di essere in un laboratorio di falegnameria.

Altri piatti delle brónse che si trovavano quasi sempre: il baccalà e i polpi (fólpi). Come tutti sanno, quando nel Veneto si parla di baccalà, in realtà si parla di stoccafisso, il quale è il merluzzo essiccato all’aria mentre il baccalà è il merluzzo conservato sotto sale. D’inverno, si consuma preferibilmente il baccalà con la ricetta del mantecato (fatto bollire col latte, alla fine si presenta come un formaggio mascarpone) o alla vicentina. Col caldo, invece, si trovava nelle brónse preferibilmente il baccalà in insalata, lesso, con olio, aglio e prezzemolo. 

[segue su Città di Venezia 13]

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