Ora di colazione [119]

Voigtlander Vito BL Ob.Color Scopar f/2.8 50mm
Voigtlander Vito BL Ob.Color Scopar f/2.8 50mm – 1962 –  foografia e fotomontaggio di Ernesto Giorgi ©

Revisione del 28 aprile 2020 

Anche questa, per i bambini di tutte le età…

Un poveraccio, piuttosto sfortunato, di nome P, (come Poveraccio) faceva la vita del barbone. Era un laureato in medicina, poi divenuto professore, persona molto in gamba. Aveva una moglie bellissima che lo aveva sposato per un motivo solo: lui le aveva promesso una vita da miliardaria e lei aveva accettato.

Subito dopo il matrimonio, quando lui era appena stato assunto come professore di chirurgia, nonché primario, da un rinomatissimo ospedale di … omissis … lei aveva cominciato a fare i conti.

Cara (che è il suo nome): “Se deve diventare miliardario, come mi ha promesso, lo diventerà entro qualche anno e questo nella peggiore delle ipotesi ma ormai milionario lo dovrebbe già essere, perché miliardario significa mille volte milionario. A me piacciono le automobili, le Ferrari, e non capisco perché non me ne abbia ancora regalata una. Questa sera voglio chiarire tutto.”

Cara: “Ciao, caro, ben tornato: come mai non mi hai già regalato una bella Ferrarina? a quest’ora, dopo un anno e mezzo di matrimonio, dovresti già essere milionario. Non sono brava a fare i conti, ma fino a là ci arrivo…”

“Ma cara Cara, veramente, dopo un anno e mezzo, ancora non si può pretendere…”

Cara: “Cominci con le scuse? ti sei dimenticato le promesse? io, non so se lo vedi, sono bellissima e trovo chi voglio, quando voglio, dove e come voglio. Hai tempo una settimana per presentarmi una Ferrari rossa fiammante in giardino. Argomento chiuso.”

“Ma cara Cara, in una settimana, anche ordinando l’automobile domattina, non me la consegnerebbero…”

La cara Cara: “Facciamo un mese e non parliamone più. Assieme, voglio anche i seguenti gioielli:

  1. Bla.
  2. Bla, bla.”

E così via, sino a venti gioielli.

La signora Cara, inoltre, voleva anche due mesi di ferie ad Acapulco, Barbados e Saint Vincent y las Granadinas, di cui aveva sentito parlare bene dalla sua amica Fuffi, la moglie del famoso industriale W.

Il primario P (Poveraccio) fece i conti: la Ferrari era una bazzecola in confronto ai gioielli. In tutto era una cifra tale, senza contare i due mesi di ferie, che neanche svaligiando una banca sarebbe riuscito a racimolare.

Ordinò comunque la Ferrari versando un ragionevole acconto, si fece dare dall’ ospedale un anticipo e si accorse di avere un decimo di quel che serviva. Per non perdere la moglie bellissima, decise di andare al Casinò di Capodistria, dove nessuno lo conosceva. Alla moglie disse che doveva assentarsi per un simposio. Al Casinò, come si poteva intuire, non vinse proprio niente, anzi:  perse tutto, anche le scarpe.

Tornò all’ ospedale e decise di rubare tutta la morfina e le altre droghe che vi erano custodite per rivenderle: in pratica, furto e spaccio di droga, reati gravissimi. Come ladro non valeva molto… lo beccarono… perse il posto di lavoro e fece cinque anni di carcere. Tutto per la cara Cara, che lo abbandonò fin dal giorno del processo per mettersi con Amilcare Filiotti, noto industriale di biancheria intima femminile.

Dopo cinque anni, P uscì dal carcere: non aveva più casa, lavoro, conto in banca, niente di niente. Nessun ospedale lo assunse perché l’Ordine dei Medici lo aveva radiato per indegnità.

P cominciò a pensare che forse non era valsa la pena di fare quello che aveva fatto per la cara Cara. Tra l’altro, se lo avesse abbandonato dopo una settimana, sarebbe anche stato comprensibile ma da quanto diceva il suo avvocato la cara Cara lo aveva abbandonato il giorno stesso del processo, senza nemmeno saperne l’esito o la condanna. Concluse che forse era interessata veramente solo ai quattrini, cosa che lei, ad onor del vero, aveva sempre detto ma lui non ci aveva mai voluto veramente credere.

Uscito dal carcere di Santa Maria Maggiore, Santa Croce 324, Venezia, non sapeva proprio dove andare. Era senza scarpe: poco male, dato che era estate. In una bisaccia aveva un paio di chili di pane, alcuni spiccioli guadagnati in prigione facendo il barbiere (professione che può essere svolta da un primario chirurgo) e nient’altro. Cominciò ad andare verso il centro cittadino e arrivò al vaporetto che portava al Lido. Il bigliettaio lo guardò, lo vide senza scarpe e gli fece cenno col capo di salire nel battello, senza biglietto.

P mormorò: “Gràssie… [Grazie]

Da quanto era stato arrestato, era la prima volta che si trovava a contatto col mondo esterno e si vergognava come un ladro, quale in effetti egli era stato.

Quando una vocina dentro gli diceva che la colpa era di Cara, egli rispondeva tra sé: “No ti gèri mìnga obligà, siòr mòna, a far quéło che ti gà fàto… [Non eri mica obbligato, signor sciocco, a fare quello che hai fatto…]

Al Lido, P si fa a piedi tutto il gran Viale Santa Maria Elisabetta e arriva, con nostalgia, facendo il giro da San Nicolò, sulla spiaggia dell’Albergo Des Bains, dove a suo tempo era rimasto in vacanza con la cara Cara.

Trova il bagnino Alberto che sta mangiando una pasta asciutta, che lo riconosce e gli dice, con la bocca piena:

Càvo primàvio… el me pav a vemèngo…[Caro primario, mi sembra messo male…]

P: “No sò più primàrio e gnànca dotór, gò fàto sìnque àni a Santa Marìa Magiòr…” [Non sono più primario e nemmeno dottore, ho fatto cinque anni a Santa Maria Maggiore]

 Alberto: “Che fa ànca rìma… quésta no xe ła barxełéta e  no ghe domàndo se el ga magnà parchè se véde che nol gà magnà, no ghe dìgo de far el bàgno parché no’l gà ła capàna pàr cambiàrse, ghe domàndo par piassér de ‘ndàr vìa sinò el me scaturìsse i cliènti…” [Che fa anche rima… questa non è la barzelletta e non le chiedo se ha mangiato perché si vede che non ha mangiato, non le dico di fare il bagno perché non ha la capanna per cambiarsi, le chiedo per piacere di andare via altrimenti mi spaventa i clienti]

Mentre P si allontana, vergognandosi come un ladro, Alberto aggiunge quasi tra sé: “Sì tràn sì glòria móndo…” [Latino imparaticcio: Sic transit gloria mundi. Letteralmente: così passa la gloria del mondo… cioè P era qualcuno e ora non lo era più]

P rifà il Gran Viale e torna col battello a San Zaccaria, senza pagare il biglietto che per lui sarebbe costato come un’altra Ferrari, perché un altro bigliettaio si è mosso a compassione.

Quando è quasi arrivato, gli viene in mente che in Frezzeria, subito dopo la Piazza, c’è un ristorante il cui proprietario, Pietro Mocenigo (nome inventato), gli deve una certa riconoscenza, in quanto la sua diagnosi (di P) effettuata precocemente, a suo tempo, gli aveva salvato (a Mocenigo) la vita.

Scende dal vaporino, scalzo e si accinge ad attraversare la Piazza quando viene fermato da una pattuglia:

Indòve vàło, sensa gnànca un pèr de savàte… documenti…” [Dove va, senza nemmeno un paio di ciabatte… documenti…]

Guardano i documenti, vedono che viene dal carcere e dicono:

“Gàło inmànco dièse mìłe frànchi, sinò sarìa arèsto par acatonàgio…” [Ha almeno dieci mila lire, altrimenti sarebbe arresto per accattonaggio…]

P rovista nella sacca e mentre rovista, dice: “Tùto par na fémena, siòr vìgile…” [Tutto per una donna, signor vigile…]

P consegna al vigile 9850 lire: “Purtròpo, manca sentosinquànta frànchi… xe quéło che me rèsta dòpo sìnque àni a Sànta Marìa Magiòr… mi no savèva… se gavé da arestàrme, pasiénsa: e pensàr che se ‘l bilietèr de l’Aziènda me gavésse fàto pagàr el bilièto, i sarìa ‘ncora mànco…” [Purtroppo, mancano centocinquanta lire…  è quello che mi resta dopo cinque anni a Santa Maria Maggiore… io non sapevo… se dovete arrestarmi, pazienza: e pensare che se il bigliettaio dell’Azienda (Azienda Comunale Navigazione Interna Lagunare, ora ACTV) mi avesse fatto pagare il biglietto, sarebbero ancora meno…]

Con mossa rapidissima, il vigile aggiunge mille lire di tasca sua e dice: “Vàrda che i xe diexemiłeotossentossinquànta… el se gà sbalià a contàr… el vàda… bóna fortùna…” [Guardi che sono 10850… ha sbagliato a contare… vada… buona fortuna…]

P, commosso da tanto buon cuore, piange come un vitello, saluta i vigili e se ne va e mentre va,  pensa che la cara Cara aveva sempre detto che era interessata solo ai soldi: non le si poteva quindi imputare nulla. La colpa era di P, che aveva voluto ignorare l’avvertimento e sposarla comunque. Sia i bigliettai che i vigili avevano più cuore di Cara…

Arriva in Frezzeria e si ferma davanti al ristorante di Pietro Mocenigo, il quale lo vede ma non lo riconosce. Si accorge tuttavia che P è una persona compos-sui (latino = padrona di sé, in grado di intendere e volere, ammodo) e, pur senza averlo riconosciuto, pensa alle differenti vicissitudini che si possono avere dalla nascita in poi. Vorrebbe saperne qualcosa di più e siccome sa di avere un piccolo tavolo libero, gli fa un cenno col capo, come dire ‘Entra’.

P: “Gràssie ma, da séno, siór Mocenìgo, no gò schèi…” [Grazie ma veramente, signor Mocenigo, non ho quattrini…]

Mocenigo pensa: “Come farà mai a sapere il mio cognome?”, ripete il cenno col capo e gli indica il piccolo tavolo nell’angolo. Poi, mentre P entra e si siede, parlotta col cameriere, il quale poi va a sua volta a parlottare con P.

Ad un certo punto, il cameriere grida l’ordinazione verso la cucina:

Mèxa trìpa bondànte par el siór sénsa scàrpe… cóme vìn, el béve ‘na caràfa de àqua de rubinéto… e par el pàn, lo gà drìo lù…” [Mezza trippa abbondante per il signore senza scarpe… come vino, beve una caraffa di acqua di rubinetto… e per il pane, ce l’ha con sé…]

Quando P ha finito di desinare, Pietro Mocenigo si avvicina con una bottiglia di Merlot, si siede al tavolo, glie ne versa un bicchiere.

Mocenigo: “El me dìga tùto, maèstro: cóme fàlo a savér el me cognòme… [Mi dica tutto, maestro: come fa a sapere il mio cognome… (maestro: titolo generico che implica un certo rispetto)]

P risponde in modo che nessuno possa sentire, con un fil di voce: “Pièro Mocenìgo, che gavéva la małatìa xyz, mi so’ P, gèro dotór, professór, chirurgo, primàrio… no sò se el se ricòrda…” [Pietro Mocenigo, che aveva la malattia xyz, io sono P, ero dottore, professore, chirurgo, primario… non so se si ricorda…]

Mocenigo: “Professór! se me ricòrdo! ànime dei me mòrti! so quà, a ‘sto mondo, par mèrito sùo… ma còssa xe nàto… el me dìga tùto…” [Professore! se mi ricordo! anime dei miei morti! sono qua, a questo mondo, per merito suo… ma cos’è successo… mi dica tutto…]

P racconta che non è più dottore, professore, niente… racconta per filo e per segno, tra le lacrime, tutta la sua storia. Durante tutta la storia, Mocenigo ripeté varie volte: “…càra ła Càra… una cussì, xe pròpio mègio pèrderla che trovàrla…” […cara la Cara… una così, è proprio meglio perderla che trovarla]

Alla fine Mocenigo dice: “Xe servìa o no, ‘sta lessión…[E’ servita o no, questa lezione…]

P fece capire che era servitissima.

Pietro Mocenigo gli offrì di cominciare a lavorare facendo le pulizie e tenendo in ordine la cucina. Gli mise a disposizione una stanzetta con un letto. Dopo due anni, P era alla cassa, aiutava e sostituiva Pietro Mocenigo in tutto e per tutto: era come se i comandanti fossero due. Dopo cinque anni, Mocenigo passò a miglior vita e lasciò tutto a P, che fino all’altro ieri era ancora il legittimo proprietario.

P non commise più errori.

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