Le mille e una notte [1131]

MilleNotteRevisione testo: 13 gennaio  2024 ore 10:00 – Revisione immagini: 15/12/2023 – Abbiamo scritto più volte circa la mìmesi.

La mimesi è il desiderio di imitare l’altro ed è, a guardar bene, la causa di tutti i mali.

Il decalogo cristiano, coi dieci comandamenti, ne ha almeno quattro aventi come oggetto la mimesi: per la precisione, il quinto, il settimo, il nono e il decimo. La mimesi si vede all’opera sin dalla prima infanzia. Se ci sono, in una stanza, dieci palle di gomma, rosse, perfettamente uguali e due bambini, Antonio, un poco più grande e Bernardo, un poco più piccolo, se succede che Antonio ne prende una a caso, Bernardo non prenderà una delle altre nove palle rosse rimaste dopo la scelta di Antonio ma vorrà proprio quella scelta da Antonio. Se Antonio la concede e se ne prende un’altra, una delle altre nove, dopo un poco Bernardo getterà via la palla rossa, che aveva preso da Antonio e vorrà quella che Antonio ha attualmente.

Bernardo ragiona nel seguente modo: “Antonio ne ha presa una che sembra uguale alle altre ma probabilmente è la migliore di tutte. Anch’io voglio quella.”

Questa è la mimesi. Perché Bernardo si comporta in questo modo?

Perché l’istinto di conservazione gli dice che deve fare di tutto per conservarsi nel modo migliore possibile. Bernardo si sente insicuro, teme di sbagliare e la cosa migliore da fare è copiare l’operato di Antonio, che probabilmente la saprà più lunga di Bernardo.

Almeno, così pensa Bernardo.

Bernardo vuole essere un doppio di Antonio. Per questo gli specchi sono osteggiati dalle culture popolari, come pure le fotografie: costituiscono ragione di mimesi e quindi di discordia sociale.

Il nono comandamento dice: “Non desiderare la roba d’altri.”

Se Antonio non vuole cedere la palla, Bernardo vorrà prenderla lo stesso, cioè rubarla e quando farà la stessa cosa da grande si troverà di fronte al settimo comandamento “Non rubare”.

Pur di prendere ciò che è di un altro, sarà magari disposto ad andare anche contro al quinto comandamento: “Non uccidere.”

Per finire, se Antonio ha una bella e brava moglie, Bernardo, col carattere che ha, andrà contro anche al decimo comandamento: “Non desiderare la donna d’altri.”

Questa mimesi, dunque, dev’essere molto importante, se ben quattro comandamenti ne parlano indirettamente.

E veniamo allo scandalo, dal greco skàndalon, pietra d’inciampo, impedimento. Chi offre scandalo non è una persona molto a modo. Dare scandalo significa che Antonio non deve far venire la voglia a Bernardo di andare contro i quattro comandamenti succitati.

Eppure, la gente, appena può, dà scandalo.

Consideriamo le leggi censuarie. Cioè, le leggi contro l’ostentazione della ricchezza.

La mimesi e lo scandalo recitano una parte considerevole nel creare problemi sociali. Più volte abbiamo sottolineato che fin dai tempi di Roma antica, le donne e gli uomini ‘che hanno roba’, vogliono mostrare la roba che hanno. Cioè, vogliono dare scandalo.

Gioielli, vestiti, automobili di lusso, ville, servitù… il vero scandalo è l’esibizione del superfluo che uno ha. Più è superfluamente superfluo e più il ricco prova gusto nell’esibire il proprio avere. Cogliamo l’occasione per dire che il problema, nelle società antiche e moderne, è la causa principale dei litigi sociali.

Il grande imputato è il verbo ‘avere’. In certe lingue primitive, per evitare questi eccessi, il verbo avere non esiste nemmeno.  Per dire ‘io ho una casa ‘ si usa la perifrasi ‘a me è stata data (dal destino? da Dio?) una casa ‘.

Benché in una dimensione minore, anche il verbo ‘essere’ può generare la mimesi: nella fattispecie, causare invidia o rabbia. Dice: “Indubbiamente, ha dimostrato di essere molto più intelligente di me.  Lo invidio…”

E veniamo ad una panoramica dell’umanità. Considerato quanto detto sinora, abbiamo una massa di persone che, non essendo riuscite nella vita, sono, magari inconsciamente, invidiose di chi ha successo.

Prendiamo il signor Caio: è partito dal niente, è intelligente, si è fatto una posizione, ha una brava e bella moglie, dei bei bambini, sta bene economicamente… come non invidiarlo? e allora s’inizia la sagra delle critiche: sarà un farabutto, avrà rubato eccetera. Queste critiche addolciscono il confronto…

Troppa è la diversità tra lui e me… mi fa una rabbia… ma debbo tacere e non posso parlare, altrimenti diranno che sono un criticone. Se qualcuno, come me (leggi: un palestinese) prenderà apertamente le armi contro qualcuno come Caio (leggi: Israele), scenderò in piazza e farò delle dimostrazioni a favore del palestinese e, anche se costui ne farà di tutti i colori, lo sosterrò, per avere un addolcimento della mia sensazione di fallimento. Lo sosterrò dicendo che i palestinesi sono sfortunati, sottintendendo che anch’io sono stato sfortunato.

E così, il fallito senza speranza, invece di cercare di imparare qualcosa dalle persone di successo, parteggia sempre per i falliti, perché li eleva a vessillo del proprio fallimento. 

E veniamo ad Israele.

Gli arabi e i palestinesi vivono una vita grama, pensando, con nostalgia, alle loro glorie passate. Sono rimasti fermi al ciclo storico dei guerrieri e non ne sono mai usciti, bloccati dal ciclo prevalente dell’Occidente. Ma la piaga, per quanto dolorosa, non era purulenta. Avevano trovato, per medicarsi, delle scuse: ahimè… caldo… zona desertica…  niente materie prime… potevano piangersi addosso, per suscitare pietà. Poi, nonostante avessero trovato il petrolio, gli arabi non sono stati capaci nemmeno di aiutarsi tra di loro. Continuano a sognare i vecchi splendori, perché non c’è voglia di fare bene. Infine, arriva Israele e la piaga peggiora. Israele non ha niente ma riesce a costruire una civiltà, tra tutte le difficoltà. La differenza è tutta nella buona volontà.  Nel deserto del Negev, Israele riesce a fare delle oasi artificiali e a raccogliere frutta e verdura. Inoltre, ha concesso agli arabi di fare da giudici nell’ordinamento ebraico eccetera eccetera.

 Pensa il palestinese: “Questo è troppo… se avevamo qualche scusa che ci medicava la piaga, ora non abbiamo nemmeno quella. Il paragone è avvilente… io sogno un mondo senza ebrei, non voglio più che qualcuno mi ricordi i miei fallimenti.”

E le masse, non solo arabe, in giro per il mondo, si immedesimano nei palestinesi, tifando per loro, cioè, in realtà, per lenire i propri insuccessi. Le popolazioni di successo danno fastidio, cancellano gli alibi che avevamo…

Difficile venirne fuori: difficilissimo. Il problema sta nelle telecomunicazioni: la televisione, internet e quant’altro, sono là, a ricordare continuamente, alle masse diseredate, i loro fallimenti. Questo è connesso anche ai fenomeni migratorî.

Dice il palestinese: ” Ma sono gli occidentali che ci hanno sfruttato… noi non siamo responsabili…”

Israele ha fornito enormi mezzi finanziari ai palestinesi, perché potessero riabilitarsi ma costoro non ne vogliono sapere. Vogliono vivere come stanno vivendo e che nessuno agiti il coltello nella loro piaga.

Non vogliono nemmeno due Stati. Vogliono l’eliminazione della pietra dello scandalo: Israele.

Israele, per non dare scandalo, dovrebbe suicidarsi?

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